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5.   Dove va la biopolitica - 14/04/2009

Intervista di Sandro Giovannini a Stefano Vaj per "Letteratura-Tradizione"

 

Sandro Giovannini
A pag. 7 del libro (“Dove va la biopolitica” intervista a Stefano Vaj a cura di Adriano Scianca - Settimo Sigillo) usi la metafora della barca nel mare magnum e dei tre uomini, di cui uno propone di buttarsi a nuoto, un altro di amministrare al meglio l’attesa, il terzo di usare la barca per raggiungere un ipotetico approdo. Ed è chiaro chi scegli per te e proponi per gli altri. Ora ti prego di fare un piccolo (o grande) sforzo e di leggere questa mia poesia e di rinvenirne potenziali consonanze o dissonanze…

(Misure epiche, input-output)

L’inefficienza contro l’efficienza
se un cavallo un treno un aereo
era poesia
anche poesia
e questa macchina
ora
che ingoia
clear-cut
non c’è guadagno
a fare in un giorno un motore
che si fa ora in un ora
né utilità spirituale.

Allora siamo al punto
rivoluzione ha posto il suo limes
che dal linguaggio
ha sciolto il lavoro
dal peso e dalla condanna.

Al di là
resta
prevaricazione fame miseria
di qua forse
l’intelligenza rubata da restituire
all’uomo
la scelta che libertà
per
comunque per noi
è un dovere.

Stefano Vaj
Che posso dire? Tecnica, prima ancora di ogni "tecnologia", significa "metodo per raggiungere un risultato". Significa cioè libertà non solo di scegliere un obbiettivo, ma anche di raggiungerlo. Perché il senso del tragico, dal Mahabharata e da Omero in poi, significa accettare un destino che ci impone non solo delle scelte, ma anche quanto tali scelte rendono necessario - e possibile. Questa per taluni è grandezza, questo è il rein-menschliches, lo specificamente-umano; questo è ciò che oggi ci impone il postumanismo e l'emancipazione dalle catene della contemporaneità, prosaica, dal sogno di una "fine della storia" e prima ancora di un'immutabilità a-temporale che tale fine della storia sarebbe chiamata a ripristinare contro ogni divenire. Se ha ragione Faye (cfr. Per farla finita con il nichilismo. Heidegger e la questione della tecnica, SEB, 2007) questo è del resto il vero messaggio della riflessione di Heidegger - così come lo è dell'Operaio di Jünger. Un messaggio esigente, un messaggio rivoluzionario, che non consente alibi per rimozioni e compiacenze reazionarie che servono solo a renderci schiavi. Schiavi insoddisfatti e frustrati, e per questo ancora più schiavi - in particolare di un mondo inteso come emanazione e dominio di leggi "divine", siano esse connotate in termini metafisici, o in termini secolarizzati sotto la specie di leggi "universali ed eterne" di natura economica, giusnaturalista, utilitaristica, etc., che all'Operaio - colui che crea "opere" - e all'Artista - colui che crea l'"artificiale", il mondo-fatto-arte - sostituiscono prosaicamente il "lavoratore" - colui che si identifica invece nel suo agire la sorte e maledizione biblica che gli impone di "laborare" ("soffrire") per garantirsi le condizioni di una sopravvivenza senza scopo. Questione tra l'altro che si salda con quella squisitamente politica che riguarda il dibattito tra la liberazione del lavoro (inteso appunto gentilianamente come attività specificamente umana, come slancio prometeico collettivo) e l'aspirazione messianica e piccolo-borghese di una liberazione dal lavoro, magari in un quadro di decrescita e decadenza consensuali e "controllate"...

Sandro Giovannini
A pag. 13, a fronte della potenziale rivoluzione biopolitica poni un paragone con la svolta del neolitico e la risposta differenziata di alcune società storiche. Tra le quali “La risposta (indo)europea e del mito che ad essa dà luogo”. Il genoma stesso, con il suo incredibilmente e necessitatamente lungo processo trasformativo, va ben al di là persino di una visione da Annales… forse si avvicina di più ad una logica ciclico-mutante? (Anche perché nella società post-neolitica ed in quella o questa post-moderna - come dici lucidamente a pag. 18 - è la massa e non l’élite - e quindi l’insieme e la risultante di una società o di una civiltà - a “subire” più profondamente il paradigma del cambiamento).

Stefano Vaj
Esistono cicli nei cicli, le sfide ritornano eternamente a ripresentarsi, e nello stesso tempo come ricorda Eraclito non ci si bagna mai nello stesso fiume, ogni alba ci vede confrontati a un nuovo sole... Le questioni "biopolitiche" che oggi ci stanno di fronte rappresentano forse un punto di incrocio, una sovrapposizione, tra un ciclo relativamente breve - secolare, quello in particolare dell'umanismo giudeocristiano di cui parla Foucault constatandone al tempo stesso l'origine relativamente recente e l'esaurimento contemporaneo - ed uno più profondo, di decine e centinaia di migliaia di anni, che ha a che fare con l'ominazione stessa e le sue fasi: con il "divenire uomini" e il "cosa significa umano". In questo, l'accelerazione (ma d'altro canto la possibilità molto reale di un arresto entropico) della trasformazione culturale e l'accelerazione di quella "biologica" della nostra specie convergono. Ma prima ancora del recente aprirsi, dal marinettiamo Mafarka in poi, della prospettiva di acquisire un crescente controllo diretto e consapevole sulla nostra identica genetica e fenotipica (vedi sotto la rubrica "fyborg"), l'autostrutturarsi delle società umane ha sempre comportato una "artificiosa" direzionalità ed accelerazione nella trasformazione del nostro stesso pool genetico, in particolare attraverso le condizioni di sopravvivenza e il successo riproduttivo differenziale del tutto artificiale che ogni cultura veniva ad instaurare - al punto da istituirsi spenglerianamente in soggetto pseudo-biologico, e da impattare significativamente sulla propria "biologia" etnica (e su quella in generale della specie). Per esempio, al contrario dell'opinione tradizionale sulla relativa stabilità del genoma umano in epoca storia o preistorica recente, sappiamo oggi che varianti genetiche che interferiscono in modo rilevante con le nostre capacità cognitive si sono diffuse nella nostra specie, in modo differenziato ma significativo, non molto prima di seimila anni fa, proprio con l'Europa come epicentro e dopo il maximum glaciale che ridusse la sua popolazione all'orlo dell'estinzione (cfr. Before the Dawn di Nicholas Wade, Penguin Press, 2006). D'altronde, sappiamo oggi che taluni tratti che le società contemporanee selezionano, o viceversa contribuiscono a diffondere cessando di selezionarli, possono ben essere considerati disgenici non tanto in rapporto ad un concetto di ottimalità "oggettivo" o "naturale", ma in rapporto alla stessa norma culturale che la medesima società sceglie di adottare, per ragioni foss'anche solo mitico-estetiche, magari legate ad una valenza darwiniana in via di esaurimento (come la capacità di deambulare facendo uso degli arti inferiori). Dal che l'inevitabilità di farla finita una buona volta con politiche proibizioniste e di rimozione freudiana riguardo agli strumenti presenti e futuri della nostra arbitraria (ed auspicabilmente plurale) autodeterminazione biologica.

Sandro Giovannini
Del “realismo biologico”, tesi sostanzialmente antiegualitaria e differenzialista (il vero passo ulteriore - lo sostieni precisamente tra pag. 29 e 30 - passo di supero del cosiddetto crinale del mondo post-nichilista) tu comunque salvi la verità spingendo appunto all’oltre. Ma sembra di cogliere che la paura della nominazione che assale altri - a tal punto della tua analisi - non assalga te. Ovvero tu parli di una sorta di “fyborg” ("functional cyborg") non facendolo mai divenire, se non all’interno del medesimo processo, “un altro da sé”. Quindi - ma correggimi se forzo il passaggio logico - non morirebbe “l’umano”, “l’umano” si trasformerebbe. E’ corretta questa mia interpretazione?

Stefano Vaj
Certamente io rifiuto - e penso vada anzi demistificata, denunciata - la paura dell'"umano". Quella paura dell'umano reale, a favore di un'"umanità" astratta, immaginaria, statica, specista, che rifiuta la dimensione animale quanto quella sovrumana, e che contraddistingue l'umanismo e lo distingue dall'Umanesimo - istigando solo qualche decennio fa la denuncia isterica dei portati dell'etologia, della psicologia evolutiva, della sociobiologia, come inaccettabili e "moralmente inapplicabili" alla nostra specie. Quell'ossessione per la purezza da ogni "ibridazione" che denuncia Roberto Marchesini (cfr. Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri 2002, o "Oltre il mito della purezza" in Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano, vol. 2, Sestante 2009) e che si rovescia d'altronde nella voluttà e nell'entropia del melting-pot etnico e culturale su scala globale. E rispetto a cui va forse ancora una volta opposta la massima "homo sum; nil humanum a me alienum puto". Ma cosa detta in effetti questa massima? Cosa caratterizza davvero la nostra specie, se non quell'"incompletezza" di cui parla Arnold Gehlen, quell'ansia per il superamento di sé, se non il fatto di essere ciò che Nietzsche - talora poeticamente generalizzando al vivente in genere - vede fare "tutto ciò che può non per conservare se stesso, ma per diventare più di ciò che non sia" (La volontà di potenza, aforisma 302)? Perciò, l'umano "muore" - diventa disumano - esattamente quando cessa di trasformarsi. Oggi, quando rinuncia perciò a diventare "postumano". Attraverso il tentativo di ignorare quella che è la realtà già presente del suo "fenotipo esteso" (cfr. Richard Dawkins, The Extended Phenotype, Oxford University Press 1981), ed a maggior ragione la direzione che tale realtà indica quanto alla sua possibile, futura metamorfosi, in termini biologici e non.

Sandro Giovannini
Del “nuovo inizio” heideggeriano, di un “neo-paganesimo” post-moderno (e quindi, a fortiori, post-antico) tu dai una lettura da “origine esemplare”. E dici che l’“origine esemplare” è post-umana. Ma la poiesis - che tu stesso (necessariamente?) implichi fondante tale processo quanto - al di là della voluta o cogente tassonomia - possiamo appercepirla proprio come “post-umana”, od anche od invece come “ultranovecentista”, nella stessa accezione a cui potevano riferirsi già da tempo, ad esempio, intellettuali mille miglia (e tanti anni) diversi da te per formazione, temperie e gusti, come un Vettori (ultraumanesimo ed ultranovecento)…?

Stefano Vaj
Io non mi considero un grande "umanista" (in questo caso intendendo la parola nel suo significato di "esperto di tradizioni letterarie ed artistiche"), ma piuttosto uno studente di diritto, filosofia e politica, e in particolare dei luoghi concettuali in cui tali materie si incontrano con la tecnoscienza e l'antropologia culturale. Non conosco perciò bene Vettori. Ciò di cui sono sicuro è che il "postumanismo" che la tradizione stessa dell'Umanesimo, da Pico della Mirandola a Leonardo a Machiavelli sino a Gentile (cfr. quanto dice Severino riguardo a quest'ultimo), ci impone oggi di declinare, e che la "teoria critica" del postmodernismo accademico (Lyotard, Baudrillard, Deleuze...) in parte traduce, è il presupposto stesso perché sia possibile pensare sino in fondo, in una rottura prima di tutto culturale, quella che si annuncia come una possibile rottura ("postumana") di natura e portata antropologica. In questo senso, la rivoluzione "pagana", e ciò che essa ha comportato in termini di mutamento di paradigma rispetto alla cultura del paleolitico rappresenta davvero un'origine esemplare, la cui eredità e modello ci chiama heideggeriamente dall'avvenire come destino con cui siamo obbligati a confrontarci. E ancora, rappresenta la scelta di un "altro passato", quello che ci vede eredi tra gli altri di Talete, Eraclito, Pitagora, Democrito, Ippocrate, Lucrezio, piuttosto che della pira su cui è stato bruciato Giordano Bruno o del tribunale che ha costretto Galileo all'abiura. Un passato che continua a stendere la sua lunga ombra sul nostro presente, sia nelle sue varianti che conservano una fondazione apertamente metafisica, che nelle propaggini secolarizzate e materialiste ormai per lo più ridotte alla sfera etica ed epistemologica, specie dopo la "crisi delle ideologie". D'altro canto, come dice Faye in "Futurismo e modernità" (Divenire. Rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e il postumano, vol. 3, Sestante Editore 2009), la prima modernità conosce nel novecento il suo canto del cigno, una "morte trionfale" che ci impone oggi una Aufhebung ipermoderna e perciò "postmoderna" capace di portarci "là dove nessun uomo è mai giunto prima". Oltre la "vecchia" modernità, per una nuova origine.
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