Macchine e no
Il Secolo d'Italia - 9 maggio 2009
Adriano Scianca
Reazionari di tutto il mondo, unitevi. Il nuovo nemico, ormai è chiaro, sono le macchine. In particolar modo i computer, vere sanguisughe della linfa vitale, bestie immonde che uccidono l’anima, la poesia, la vita. Il ritornello passatista suon sempre più di frequente, in effetti, con buona pace delle profezie visionarie di Ridley Scott, che con il suo Blade Runner, immaginava androidi atletici, eroici e filosofi, creature che “hanno visto cose che noi umani non possiamo neanche immaginare”, contrapposti ad un’umanità decadente, depressa e infiacchita. Il robot come vero uomo, insomma. E’ del resto un segno dei tempi che negli Usa la “Boom! Studios” stia per riproporre in versione fumettistica proprio l’avventura fantascientifica del cacciatore di replicanti ma, attenzione, facendo esplicito riferimento alla sola novella dello scrittore statunitense Philip K. Dick Do androids dream of electric sheep?, non al celebre film che da essa fu ispirato. L’operazione ha l’intento di «consentire ai lettori affezionati e a quelli nuovi di esplorare parti del romanzo che sono state trascurate nel film». Ora, si dà il caso che il racconto di Dick abbia una morale esattamente opposta a quella intrinseca nella pellicola di Scott. Come dice sempre l’esperto di biotecnologie Stefano Vaj, l’intento dello scrittore statunitense era quello di mostrare un futuro alienato in cui un uomo poteva giungere ad innamorarsi di un replicante (il che nell’ottica del libro è più o meno simile al fidanzarsi con una lavatrice), mentre il film risulta appunto percorso da un respiro titanico e superomistico estraneo ad ogni facile luddismo.
Segno dei tempi, dicevamo. Altrettanto sintomatiche sono le denunce isteriche che ogni tanto compaiono sui giornali o in tv, dove l’immancabile intellettuale moralista se la prende con internet, con YouTube, con Wikipedia e compagnia bella. In realtà, riguardo a Internet occorre distinguere due categorie di persone: quelli che lo usano e quelli che ne parlano. Non che i due gruppi non contino innumerevoli spazi di intersezione, beninteso. Anzi, in linea di massima, poiché praticamente tutti oggi vanno sul web, lo spartiacque potrebbe forse essere un altro: da una parte quelli per cui la rete “fa problema”, dall’altra quelli che ne usufruiscono in modo irriflesso, ma anche più spensierato e più pragmatico. Per il 90% delle nuove generazioni - i “nativi” di internet - vale questa seconda opzione: il web esiste come una sorta di “seconda natura” cui si fa continuamente ricorso senza stare troppo a pensarci su. Sarà che siamo cresciuti a suon di cartoni animati giapponesi, dove i robot erano creature familiari in cui si condensava tutto il nostro infantile spirito d’avventura, ma le nuove frontiere delle tecnologie non ci tolgono affatto il sonno. Non per questo, del resto, i giovani sono diventati umanoidi alienati e sociopatici. Non più di quanto non lo fosse la gioventù di uno o due decenni fa, almeno. C’è poi chi si è arreso all’avvento delle nuove tecnologie per puro pragmatismo, ma conserva ancora nel cuore il ricordo nostalgico dei bei tempi andati, dove tutto era più lento e macchinoso ma - chissà poi perché - tutto era più “a dimensione umana”.
E’ il caso, ad esempio, di Giorgio Bocca, che nell’ultimo numero de L’Espresso ci ricorda che «il punto debole della modernità, delle macchine intelligenti, dei computer e di internet è che ci risparmiano le fatiche stupide, ripetitive, ma non ci forniscono genio, arte, intuizione [...]. Con la modernità computerizzata tutto è più comodo e facile, ma tutto più mediocre e deludente». E ancora: «Quel dubbio, quella cautela, quel pensiero di assistere a un grande inganno, a una retrocessione umana scambiata per un passo decisivo per la sopravvivenza in un futuro radioso, non mi ha mai abbandonato, perché quello che ci veniva donato con una mano ci veniva tolto con l’altra». Ci risiamo. Il noto giornalista cade ancora una volta nel tranello moralistico. L’argomento, per così dire, “filosofico” è debole e già sentito, peraltro con dosi molto maggiori di profondità. E’ vero: internet è un utile strumento, ma non determina inevitabilmente un progresso dal punto di vista dei contenuti. Il che, in fondo, vale per l’automobile, la dinamite, la macchina a vapore e l’ascia di pietra scheggiata: sono solo strumenti, quel che conta è ciò che se ne fa. Il secondo passaggio è invece del tutto ingiustificato: perché con il web tutto diventerebbe «più mediocre e deludente»? Uno scrittore che è passato dalla “Lettera 22″ al pc ha forse perso talento, inventiva, profondità?
Più realisticamente, tocca a Philippe Daverio, pure critico d’arte e non certo bieco manager incolto della new economy, spiegarci che «i due dati oggettivi della globalizzazione sono internet e il telefonino: il tempo reale del lavoro è legato al tempo di internet. Tre quarti delle mie ricerche - spiega Daverio a Panorama - sono su internet: soltanto la Library of congress (la Biblioteca del Congresso Usa, ndr) permette l’accesso a 8 milioni di volumi online: quattro volte di più di tutte le biblioteche di Milano». Senza internet, quindi, «saremmo tutti del 70 per cento più stupidi. Anzi, imbecilli: l’etimologia della parola è ‘colui che non ha il baculum’, il bastone della ragione».
Fa comunque una certa impressione vedere tante menti illuminate dell’italico progressismo ripiegare su invettive passatiste. Sarà che aveva ragione Guillaume Faye quando denunciava, ormai trenta anni fa, la deriva reazionaria di una certa sinistra, spiazzata da un sol dell’avvenire che non sembrava avere i raggi del colore sperato: «Il destino implicito delle ideologie moderniste - scriveva Faye - è lo scontro con la modernità in quanto essa porta con sé la tentazione della storia [...]. Tutto accade come se, dopo essersi fatta scudo della modernità, l’ideologia occidentale ed egualitaria si fosse accorta che questa modernità finisce col contraddire gli ideali occidentali, perché la sua essenza sta nel mettere il mondo in movimento. Un movimento necessario per rovesciare il vecchio mondo; ma che fare se, come il fiume di Eraclito o la freccia di Zenone, esso non si arresta? Che fare, se la modernità che si credeva segmento si svela una sfera e continua a girare?».
L’inchiesta-denuncia contro i mali di internet, del resto, non è cosa nuova. Già un decennio fa Charles Champetier, allora astro nascente della nouvelle droite francese, polemizzava con Daniel Schneidermann, di Le Monde, autore appunto di un’invettiva contro i pericoli della rete. Il giornalista, spiegava Champetier, si mostrava ossessionato «dal sesso (orrore della carne virtuale), dalla pirateria (orrore della predazione virtuale), dal revisionismo (orrore della storia virtuale) e dall’estrema destra (orrore della bestia immonda virtuale)». Il pupillo di Alain de Benoist, tuttavia, finiva per inquisire l’inquisitore: «Le Monde, che aveva già iniziato a correggere le devianze dello spirito umano, sta per lanciare la crociata contro i robot: nasce la cyberinquisizione. In previsione di questo scontro, noi esprimiamo evidentemente la nostra intera solidarietà alle macchine, nate come noialtri sotto una cattiva stella, prive come noi del più elementare senso morale, libere come noi della cattiva coscienza». Dieci ani dopo, siamo sempre lì. A fianco dei robot, al di là del bene e del male.